Diritto di critica del Lavoratore-Limiti e conseguenze del superamento
Il diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro è pacifico, essendo espressione del generale principio di libertà di manifestazione del pensiero (sia esso espresso sotto forma verbale, scritta o attraverso qualsiasi mezzo di diffusione), previsto e garantito dall’art. 21 della Costituzione.
Del resto il fondamento di una società democratica è stato identificato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la libertà di espressione.
Per quanto concerne in modo specifico il tema del lavoro, il diritto di manifestazione del pensiero e, quindi anche di critica, in Italia, è riconosciuto espressamente ai lavoratori dall’art. 1 dello Statuto dei Lavoratori a norma del quale questi “hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della costituzione e delle norme della presente legge”.
Affinché il diritto di critica sia legittimo è necessario, però, che il lavoratore rispetti determinati limiti stabiliti dalla giurisprudenza negli anni e, precisamente:
- la critica del lavoratore deve essere orientata al conseguimento di un interesse di dignità quantomeno pari o superiore dell’interesse del datore di lavoro a non essere screditato, ovvero a vedere tutelata la sua reputazione e immagine (c.d. limite esterno del diritto di critica). In sostanza il diritto di critica del lavoratore è comunque limitato dal dovere di fedeltà verso il datore di lavoro;
- i fatti raccontati dal lavoratore devono essere veri (c.d. limite della continenza sostanziale);
- il lavoratore nell’esercizio del diritto di critica deve utilizzare un linguaggio e una forma lessicale rispettosa della civiltà e della lealtà, senza toni volutamente eccessivamente scandalizzati e sdegnati (c.d. limite della continenza formale).
- Il mancato rispetto di uno qualsiasi dei limiti sopra detti comporta la sanzionabilità della condotta del lavoratore per violazione dell’obbligo di fedeltà sancito dall’art. 2105 c.c. che potrà arrivare, nei casi più gravi, al licenziamento per “giusta causa”.
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