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Mobbing e comportamento dell’Azienda (Cass. Civ., sez. lav. sentenza 26.03.2010 n. 7382)

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29/04/2010

 

Se l’azienda tollera e asseconda il comportamento del direttore dello stabilimento che, prendendo di mira un dipendente, lo umilia e lo colpevolizza con continui “insulti e rimproveri” davanti ai colleghi, è tenuta al risarcimento del danno da mobbing. E’ quanto ha precisato la Suprema Corte che, intervenendo nuovamente nell’annosa questione del risarcimento del danno da mobbing, con la sentenza 7382/2010, ha stabilito che “ha diritto al risarcimento del danno da parte dell’azienda il prestatore di lavoro che viene preso di mira e ridicolizzato da un capo davanti ai propri colleghi”.

I giudici di legittimità hanno, infatti, respinto il ricorso di una azienda che non aveva provveduto alla tutela di un proprio dipendente che spesso veniva ridicolizzato dal capo dello stabilimento, e veniva, altresì, adibito a lavori molto gravosi rispetto a quelli svolti in passato, nella totale indifferenza e complicità del rappresentante legale della società”.

 

La Vicenda

 

In seguito al licenziamento il “mobbizzato” citava in causa l’azienda, e sia il giudice di primo grado che la Corte d’Appello accordavano all’uomo il risarcimento del danno e la reintegrazione nel posto di lavoro. La questione si spostava dinanzi alla Corte di Cassazione dopo il ricorso fatto dall’azienda, ma, anche qua, senza alcun successo, in quanto, anche i giudici della Corte respingevano il ricorso, precisando, inoltre, i parametri per accordare un risarcimento per mobbing.

Nella sentenza in commento si legge, infatti, testualmente che “per mobbing riconducibile alla violazione degli obblighi derivanti al datore di lavoro dall’articolo 2087 c.c. deve intendersi una condotta nei confronti del lavoratore tenuta dal datore di lavoro, o dei dirigenti, protratta nel tempo e consistente in reiterati comportamenti ostili che assumono la forma di discriminazione o di persecuzione psicologica da cui consegue la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente nell’ambiente di lavoro, con effetti lesivi dell’equilibrio fisiopschico e della personalità del medesimo”.

“Quindi, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti :

 

a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio posti in essere in modo sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;

c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del dirigente e il pregiudizio all’integrità psicofisica dei lavoratore;

d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio”.

 

Nel caso di specie, secondo le considerazioni svolte dalla Corte il “comportamento tenuto dal capo dello stabilimento costituisce sicuramente mobbing del quale si deve considerare responsabile anche l’impresa che ha accettato consapevolmente il rischio che da tali comportamenti illeciti potessero derivare conseguenze dannose a carico dei dipendenti”.

Con la decisione in commento, quindi, la Suprema Corte si è pronunciata riguardo alla compartecipazione alla colpa dell’azienda in caso di comportamenti c.d. mobbizzanti di un responsabile nei confronti di un subalterno, riconoscendo la “colpevolezza dell’azienda” che non si è operata al fine di evitare che un proprio dirigente interrompesse comportamenti ridicolizzanti e vessatori nei confronti di un dipendente, addirittura fino a giungere al licenziamento dello stesso.


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AUTORE - Studio Legale Albini