LA PROVA DEL MOBBING
La prova del “mobbing” è uno degli elementi fondanti le cause per “mobbing” e certo il più complicato da fornire per il lavoratore vittima di comportamenti vessatori e/o mobbizzanti.
Il rischio di cause infondate e pretestuose intentate dai lavoratori ha, infatti, portato nel tempo la giurisprudenza a porre a carico del lavoratore che promuove una causa per “mobbing” un duplice onere probatorio.
Il lavoratore deve, così, provare:
- l'”elemento oggettivo” delle condotte idonee a integrare il “mobbing“, cioè una pluralità di azioni dirette alla sua umiliazione ed isolamento personale e professionale;
- l'”elemento soggettivo” persecutorio del datore di lavoro, ovvero il “dolo del mobber“, il suo animo di nuocere al lavoratore.
Se rispetto al primo elemento (esteriore), la prova deve essere data documentando condotte del datore di lavoro, quali:
- demansionamento;
- irrogazione di sanzioni disciplinari infondate;
- controlli ingiustificati e ossessivi;
- svuotamento di mansioni;
- eccessivo carico di lavoro;
- mancata valorizzazione;
- esclusione del dipendente dalla riunioni aziendali, ecc..
molto più arduo è dimostrare il dolodel mobber, ovvero il suo (interiore) intento persecutorio.
La difficoltà di dare una tale prova, fino a diventare una vera e propria c.d. “prova diabolica” tale da portare al rigetto delle domande di risarcimento danni da “mobbing” (con negazione di giustizia al lavoratore), ha portato la giurisprudenza più recente a mitigare l’onere probatorio in capo al lavoratore.
In questo senso, la Cassazione civile, Sez. Lavoro, con sentenza n. 2318 del 25 settembre 2019, si è pronunciata stabilendo che la prova del dolo del “mobber“, ovvero dell’intento vessatorio del datore di lavoro, possa essere data dal lavoratore anche tramite presunzioni (art. 2727 c.c.), ovvero in base alle caratteristiche oggettive dei comportamenti tenuti dal datore di lavoro, quali presunzioni gravi, precise e concordanti dalle quali è possibile desumere la volontà persecutoria del datore di lavoro.
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